04 February 2006

il mio nome è TAESU.





Cosa succederebbe sei fossi rapito e rinchiuso in una stanza, quattro semplici mura , per 15 anni?? Quale sarebbe la prima domanda che ti porrai quando ne sarai fuori? perche mi hai imprigionato?o piuttosto, perchè mi HAI RILASCIATO???


Da qui parte la storia che con il susseguirsi di colpi di scena ti farà rimanere in tensione fino all'ultimo secondo del film...non scherzo...lo paragano ad un pugno in uno stomaco, ad un colpo di pistola ( Subsonica docet).Questo è un film da vedere, che consiglio a tutti...ma nn solo da vedere, ma da rivedere per coglierne tutti i particolari, o meglio i dettagli...perchè è di questo che il regista si ciba, di dettagli che svelati uno dopo l'altro fanno in modo che tu pensi di essere arrivato ad una conclusione, per scoprire che quell'ipotesi che hai fatto è totalmente sbagliata e la trama arriva a raggiungere eventi impossibili...

Come ad esempio il logo della società del cattivo che si manifesta negli oggetti in scena quando sta per accadere qualcosa di terrificante ( un pacco regalo, una penna, un biglietto da visita, un ombrello e perfino la tappezzeria). E' pazzesco, dalla scuola dei Flashback di Tarantino, alle musiche , alla violenza delle battaglie del protagonista che dovrà affrontare ilò protagonista per conoscere la verità in stile a BETTER TOMORROW di Woo e ai film di Takeshi Kitano ; fino al finale, da capire solo dopo parecchie ore che hai visto il finale in stile Donnie Darko...MERAVIGLIOSO!!! Il film ha tutto il meglio, regia, fotografia, luci, effetti speciali e TRAMA, la vera linfa vitale di ogni film...come il concept per i progetti, senza la trama il film non ha contenuto, spessore, non ti rimane nella memoria e lo cancelli...

il protagonista è TAEUSU: (DAE-SOO): COLUI CHE SI DIVERTE E VA D'ACCORDO CON TUTTI GLI ALTRI. E' il tipo che vedete nellle foto con un martello in mano.
Se ridi, tutto il mondo riderà con te; se piangi, piangerai da solo. Questa massima ripetuta più volte dal protagonista sintetizza il senso intimo di un’opera, ispirata ad un manga giapponese, la cui originalità risiede, più che nel plot nella messa in scena, abile intreccio di iperrealismo , in cui l’alternanza di lacrime (quelle della giovane cuoca di sushi dalle “mani fredde”, Mi-Do) e di sangue (fatto scorrere dal suo “amante” TAESU) pare dipanarsi non secondo la logica della sorpresa, ma secondo quella della necessità. L’ossimoro del titolo traduce la forma mentale del protagonista, uomo che, paradossalmente fin dal nome, dovrebbe “star bene con gli altri” , prima e dopo la reclusione: vi entra vecchio, maturo, alcolizzato,“smemorato” (Old) e vi esce ringiovanito, costretto a ricercare nel proprio passato di piccolo delatore di un collegio cattolico il senso del presente. Ognuna delle quattro mura della prigione privata stimola in lui una “spinta verso”: verso la vendetta, nella parete in cui si allena prendendo a pugni la silhouette del fantomatico sequestratore che ha disegnato; verso l’esterno, la libertà, il sole, la pioggia, la parete con la fittizia finestra, aperta su una distesa verde con tanto di mulino a vento; verso l’altro, la parete dell’ingresso, unico legame con l’altro da sé impersonato da colui che, quotidianamente, gli porta il cibo; verso la riscoperta di sé, nella parete in cui è appeso una sorta di “ritratto di Dorian Gray”, sempre meno dipinto, sempre più specchio in grado di riflettere le “rughe”, le piaghe dell’anima.

Tuttavia, le scelte stilistiche adottate (primissimi piani, grandangoli deformanti, voce off, anticipazioni sonore, efficaci interazioni tra flashback/passato e “presente”, dialoghi da programma di divulgazione scientifica, motivati dal fatto che nei quindici anni di prigionia l’unico contatto col mondo esterno del protagonista è stato giusto un apparecchio televisivo) non hanno nulla a che vedere con il cinema orientale di "genere".Nella proliferazione di atti estremi – polipi vivi divorati in un sol boccone, denti estratti con metodi alla Sin City, mani amputate, bypass con telecomando e lingue tagliate – si coglie in filigrana la disperazione che pare determinare ogni gesto, condizionare ogni movimento: la vendetta non è più un piatto che va servito freddo, ma è una pietanza andata a male, maleodorante, che non libera l’autore dalla pesantezza del gesto che si accinge a compiere, ma che anzi lo lega in maniera ancora più indissolubile ad un passato che vorrebbe dimenticare, e che il protagonista riuscirà a rimuovere solo grazie all’intervento provvidenziale del (********NON VE LO DICO O VI SVELO UNA PEDINA FONDAMENTALE), quindi dell’altro. Il regista dice: "è un tema che mi interessa perché vendicarsi è un comportamento che non ha alcun senso, che non riporta in vita le persone che non ci sono più, eppure che spesso non si può evitare. Pur non avendo senso la vendetta richiede moltissime energie per portare a termine l'azione. Chi si vendica è consapevole del fatto che la sua vendetta non porterà a nulla, ma non è capace di fermarsi. Questa inutilità dell'azione con il dispendio di molte energie è un tema che mi affascina molto dal punto di vista psicologico".L’immensa solitudine dell’uomo che soffre, il consenso che gravita attorno all’uomo felice: per questo, un sorriso forzato nei momenti di massimo dolore pare l’unica soluzione in grado di permettere al protagonista, di “essere il proprio nome”, di “stare bene con gli altri”.
In "Old Boy", la regia assume una valenza quasi narrativa perché scandisce i passaggi del racconto, di per sé bizzarri ma lineari, con grande efficacia. Sono tante le invenzioni che spiazzano (una formica gigante in autobus), disorientano (la traiettoria di un martello pronto a colpire disegnata sulla pellicola), scioccano (un polipo mangiato vivo), stridono (l'incontro iniziale con il suicida), ma finiscono per essere tutti tasselli di uno sguardo d'insieme omogeneo, che non insegue le mode, ma le frulla con maestria. Alcuni momenti, complice la ricca colonna sonora e il perfetto montaggio, incollano alla poltrona proprio per il come, piuttosto che per il perché (ad esempio, le suggestive interazioni del protagonista con il flashback rivelatore), ma non si tratta di mera forma, bensì di un modo assolutamente cinematografico per sostanziare i passaggi della sceneggiatura. Inoltre, nonostante la cupezza dell'universo in cui i personaggi si muovono e il tormento alla base delle loro scelte, non è la grevità il fine ultimo del regista.
Ed ecco una scena da fumetto esteticamente valida ed emozionante :in piano sequenza dove TAESU affronta con un martello una trentina di avversari.


Meritatissimo Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes.


Ringrazio Sergio e Heru che mi hanno fatto conoscere questo film, e jorjo che me lo ha procurato...

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